Nell'attendere che Willy, il mio programma, terminasse la fase di test degli strumenti, non sapevo cosa fare. Ammiravo la rappresentazione tridimensionale dei documenti e dei programmi del mio HD Seagate da 80 Gbyte, e tra essi mi muovevo lentamente, pigramente, in attesa dell'evento, il mio ultimo evento.
Il mio corpo era disposto sopra alla solita poltrona anatomica de Coubertin 1K, schienale inclinato di quarantacinque gradi, braccioli avvolgenti e regolabili, poggiagambe allungabile motorizzato. Un raggio laser mi disegnava sulla retina il paesaggio virtuale, ed un grosso cavo, inserito alla base della poltrona, ne collegava gli stimolatori elettrico-acustici, ed i sensori, capaci di rivelare 1024 movimenti, al computer. Mi guardavo attorno, ammirando i colori brillanti che mi circondavano, ma soprattutto fissavo una porta all'orizzonte. Sapevo che oltre quella c'era un cavo, ed oltre al cavo una centralina, ed oltre alla centralina un satellite, rimbalzando sul quale, avrei potuto raggiungere tutti gli altri posti fuori da questa topaia e tutte le altre persone che come me, in quel momento, erano connesse ad un computer.
Quel percorso non era una novità per me, ma quella volta mi sarei spinto oltre. Aspettavo di infilare tutto me stesso in quel cavo ottico, per poi fluttuare liberamente nel mare (forse infinito?) di byte, costellato di isole di silicio, che ormai aveva sommerso il nostro pianeta, ed in cui avevano trovato una sede le conoscenze, le culture dei popoli. Era a questo che il mio sguardo puntava.
Un gong indiano indicò che i test erano finalmente finiti e che Willy aveva cominciato l'operazione. Quel suono mi risuonò in tutto il corpo, emozionandomi. In quel momento, per me fondamentale, mi venne spontaneo ripensare alla mia vita, a come si era involuta negli ultimi anni, a partire da quella bastarda guerra tra i Comuni. I ricordi dei mesi trascorsi sul fronte carnico con il buio, il freddo umido e la neve, dei periodi in cui l'unico momento di calore era dato dalla grappa, accompagnavano ancora le mie notti insonni. Il contatto continuo con la morte mi aveva distrutto, spolpato, e gli spari mi rimbombavano ancora nelle orecchie.
Che cretino che ero stato! Quando il fronte Nord si era spezzato e Tolmezzo era caduta, ero crollato anch'io. Avevo creduto che la fuga, la diserzione, fosse la soluzione ai miei problemi, ma mi ero sbagliato. A causa di quella scelta avevo trascorso il resto della mia esistenza in clandestinità, braccato dai militari, ed isolato in questo garage abbandonato, solo con il mio computer, un Derlington Power 650, un RISC della terza generazione.
Per paura di essere rintracciato, visto o riconosciuto, mi ero rinchiuso sempre di più in questo luogo, uscito sempre di meno, e avevo speso la maggior parte delle ore di fronte al calcolatore. Il resto del tempo lo avevo passato a rivivere ciò che avevo appena compiuto e a fantasticare su ciò che avrei fatto quando mi sarei ricollegato, quali onde del mare avrei cavalcato. Ormai vivevo solo per quello, l'unica cosa che mi dava emozione che mi faceva sentire vivo era trovare nuovi luoghi nella rete, i nuovi atolli che emergevano, magari solo per pochi giorni prima di sparire sommersi da una nuova ondata di byte.
Mentre mi perdevo nei ricordi, una strana macchina che stava a fianco della poltrona si accese e cominciò a funzionare. Quel groviglio di cavi e circuiti, interfacciato al computer, era Larry, una bestia che avevo creato innestando quattro banchi di memoria di 128 Mbyte l'uno, presi da una workstation grafica in disuso, assieme ad un generatore di corrente taiwanese, e ad un braccio meccanico costruito dalla Solaris di Osoppo. Quest'ultimo credo che venisse utilizzato un tempo per medicare malati infetti o radioattivi. Lo avevo trovato durante la fuga quando mi ero riparato tra le rovine dell'ospedale di Gemona, così, quando avevo iniziato a pensare questo progetto, mi ero ricordato di lui e avevo deciso di andare a recuperarlo. Per far ciò, una notte avevo noleggiato, sotto falso nome, un camion, comprato della grappa Nonnino per tenermi caldo, ed avevo imboccato la statale 14 in direzione nord. Riattraversare i luoghi e le località che avevo contribuito a devastare mi aveva riempito di tristezza, e la neve che stava cadendo mi aveva fatto sentire ancora più maledettamente solo. Non ne avevo potuto più di quella situazione, e man mano che mi ero avvicinato all'ospedale mi ero convinto che non avrei più trovato un posto in quel mondo, ma che tutto sommato ero stato fortunato: ne avevo scoperto uno nuovo in cui entrare.
Dal suono del gong trascorse ancora qualche secondo prima di avvertire la puntura dell'ago nel braccio, e credere di percepire il fluire del sedativo nella vena; dopo poco, cominciavo a sentire gli arti indolenziti, ed avevo l'impressione di essere rigido, pesante, pachidermico. Le immagini che venivano spedite sulla retina riuscivano ad essere elaborate sempre più lentamente dal mio cervello, fino al punto da diventare un fotogramma fisso. Avevo raggiunto il punto di non ritorno, ed in quell'istante una paura inaspettata si impossessò di me.
Mentre stavo lavorando a questo progetto avevo immaginato che nelle fasi cruciali avrei potuto perdere il controllo, ma non avevo mai pensato fino a quel punto. Avevo paura di fallire, di aver fatto uno sbaglio nel programma. Per cercare di calmarmi ripensavo freneticamente a tutto ciò che avevo scritto, ai circuiti che avevo saldato, ma il far questo continuava ad agitarmi, ed in breve la paura divenne terrore. Paralizzato sulla poltrona dall'acido che mi ero fatto iniettare, e con l'idea che se anche mi fossi accorto di uno sbaglio non l'avrei potuto più correggere, ero ormai in preda al panico. Mi sentivo ancora una volta impotente dinanzi allo svolgersi della mia vita; avevo deciso di imboccare una strada senza ritorno, una via che mi doveva portare alla separazione dalla carne, dalla materia, ma che sapevo potermi portare diretto alla morte. Ormai non ero in grado di fare più nulla.
Tutti questi pensieri vennero spazzati via quando una seconda iniezione mi mise in circolo il veleno. Giunse il dolore, e fu tremendo. Mi sembrava che le ossa si stessero spezzando, che la carne si stesse lacerando, era come se il mio corpo si stesse strenuamente e disperatamente opponendo alla fuga del pensiero. L'intensità del male aumentava sempre di più, al punto tale che, non riuscendo a resistere, cominciai ad urlare: ``Basta, basta...''
Gridavo straziato, con tutto il fiato che potevo avere in gola. Ma non c'era nessuno ad ascoltarmi, in quel vecchio garage di periferia.
Disperatamente il mio cervello inviava agli arti gli impulsi per muoversi, ma ormai erano immobilizzati, mi sentivo come in un'armatura arrugginita, avrei voluto fermare tutto, ma non era più possibile.
Di colpo l'immagine sparì totalmente dalla mia mente, persi i sensi, e mi immersi in un buio denso e pesante, e vi rimasi non so per quanto tempo.
Ma quello era l'istante in cui il generatore di Larry doveva entrare in funzione per fornire corrente ai banchi di memoria, e Willy recuperare e riassemblare la configurazione dei neuroni del cervello, per poter dare inizio alla sua fase di apprendimento. Larry, iniettandomi un cardiotonico, si occupò di tenermi in vita ancora per qualche istante, il tempo necessario al programma per compiere le ultime verifiche, prima di iniettare la dose letale, per lasciare che il corpo si afflosciasse definitivamente.
Quando lentamente il buio si diradò, riapparve l'immagine dei miei documenti, ma questa volta era più nitida, più definita. Il dolore era svanito lasciando una sensazione di benessere, leggerezza. Potevo muovermi con una rapidità sorprendente, impensabile rispetto a quando ero ancora vincolato al mio corpo. Ormai ciò che vedevo non era più una rappresentazione virtuale di qualcosa di intangibile, era una parte di me.
Senza indugiare oltre, varcai la porta e mi infilai nel cavo, lasciando che il pensiero fluttuasse liberamente nel mare dell'inter-rete, attraverso i programmi, le banche dati, la cultura, e più in generale attraverso tutto ciò che è la conoscenza e che qui è memorizzato. Mi sentivo come un neurone facente parte di un enorme cervello in continua espansione, ed evoluzione.
È così che ruppi finalmente i legami con il mondo, con i suoi compromessi, i suoi stereotipi. Non ottenni l'immortalità. In fin dei conti anche i generatori di corrente, le memorie, i computer hanno un loro ciclo di vita. Almeno saprò che quando il programma che mi rappresenta si disperderà come sabbia nel caldo vento del cyberspazio non sarò morto in una stupida guerra. Ed è in questo mare che svanirò, che mi perderò, perché è in tanta saggezza che s'annegherà il pensier mio: ma il naufragar, mi sarà dolce in questo mare.
Marco Trincardi